Strumenti di tutela del patrimonio e del passaggio generazionale. Due diverse culture giuridiche a confronto: Fondo patrimoniale e Trust
La moderna economia, sempre più aperta alla costituzione di patrimoni destinati a scopi predeterminati, rende interessante il confronto, in termini di efficienza, tra due strumenti negoziali che, seppur appartenenti a tradizioni giuridiche diverse, presentano una astratta portata applicativa, declinata nei termini della solidarietà e della protezione patrimoniale familiare, funzionalmente equiordinata.
Il riferimento è, da un lato, al fondo patrimoniale, istituto introdotto con la riforma del diritto di famiglia del 1975, in sostituzione del patrimonio familiare; dall’altro al trust, strumento di stampo anglosassone che, entrato nel nostro ordinamento “da illustre sconosciuto”, a seguito della ratifica della Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985 (L. 16 ottobre 1989, n. 364,), è stato oggetto di un lungo processo di metabolizzazione giurisprudenziale e dottrinale, e per l’effetto, di una crescente operatività nella realtà giuridica italiana.
In linea generale, fondo patrimoniale e trust danno vita ad un patrimonio separato, inteso come un complesso di beni, distaccato dal patrimonio del costituente/disponente mediante atti inter vivos o mortis causa e destinato a conseguire, in forza di uno speciale regime gestorio, una finalità determinata. La separazione patrimoniale poggia su di un vincolo di indisponibilità, a connotazione reale, impresso sul patrimonio stesso, dando luogo ad una responsabilità patrimoniale dei singoli beni che lo compongono circoscritta alle obbligazioni assunte con la loro destinazione.
Nonostante questa comune categorizzazione, fondo patrimoniale e trust sono mezzi giuridici differenti, ciascuno dei quali contraddistinto da proprie peculiarità e specialità operative che riflettono ricadute, sul piano pratico, diversamente significative.
Il fondo patrimoniale viene comunemente definito come un complesso di beni immobili, mobili iscritti in pubblici registri e titoli di credito destinati a soddisfare “i bisogni della famiglia”, al fine di garantire a quest’ultima stabilità economica. La costituzione del fondo spetta ai coniugi, alle parti unite civilmente (o a ciascuno di essi) o anche ad un terzo, seppur estraneo al nucleo familiare. Concreta, sempre, un atto tipico, in particolare una convenzione matrimoniale, e richiede, quindi, i requisiti di forma previsti in materia dal Legislatore: atto pubblico ad substantiam, nonché, in ragione della sua natura, l’assoggettamento al regime pubblicitario di cui all’art. 162 c.c., ai fini dell’opponibilità ai terzi.
Il vincolo impresso sui beni che compongono il fondo patrimoniale impedisce l’esecuzione sui beni che ne sono oggetto e sui loro frutti per i debiti che il creditore sapeva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia (art. 170 c.c.). Dalla destinazione discende, dunque, una distinzione tra i creditori del fondo e i creditori personali dei costituenti: rispetto a questi ultimi soltanto il fondo patrimoniale diviene, a tutti gli effetti, “segregato”.
In quest’ottica, il fondo patrimoniale sembra rappresentare, quindi, uno strumento privilegiato di assolvimento degli obblighi familiari e, nel contempo, di cura e tutela dell’indirizzo familiare prescelto attraverso un rigoroso vincolo di inespropriabilità che impedisce alle vicende personali dei coniugi (o delle parti unite civilmente) di pregiudicare la sicurezza economica della famiglia.
La prassi, tuttavia, ha dimostrato come l’operatività del fondo patrimoniale sia, in realtà, schiacciata da un dettato normativo scarno (composto da soli dieci articoli del codice civile), rigidamente perimetrato e con molte zone d’ombra, che vanno ad incidere negativamente sulla funzionalità dell’istituto.
In particolare, i limiti fisiologici del fondo patrimoniale si comprendono appieno e divengono manifesti nel momento in cui si raffronta l’istituto con il “contiguo” strumento giuridico del trust, schema negoziale che, per la sua innata flessibilità e versatilità, è in grado di attuare, di volta in volta, funzioni economico-individuali diversamente orientate, purchè lecite e meritevoli di tutela (art. 1322 c.c.)
Con il trust un soggetto, il disponente, destina a vantaggio di terzi (c.d. beneficiari) uno o più beni, i quali cessano di essere di sua proprietà ed entrano nella titolarità di un altro soggetto, il trustee, con l’obbligo a carico di quest’ultimo di gestire detti beni esclusivamente in funzione della destinazione stabilita e sulla base di un programma oggettivamente limitato dal disponente stesso (c.d. atto istitutivo).
In quest’ottica il trust consente di pianificare le risorse patrimoniali e gli assetti economici di una famiglia in maniera sartoriale, attraverso la creazione su misura sia di singole che plurime posizioni beneficiarie e regolando le diverse attribuzioni, secondo una sequenza ordinata ed in relazione alle distinte esigenze dei membri della medesima famiglia, sia in vigenza che al termine finale del trust.
Mentre, dunque, nel fondo patrimoniale la destinazione dei beni – in specie, l’assolvimento dei bisogni familiari – è stabilita dal Legislatore (art. 167 c.c.) e rappresenta la sua unica funzione, istituzionale e pratica; diversamente, nel trust, la destinazione è stabilita liberamente dal disponente nell’atto istitutivo in funzione di un interesse familiare più ampio, sulla base di un divisato programma: la protezione economica accordata dall’istituto prescinde, infatti, sia dalla esistenza di una famiglia derivante da matrimonio o da una unione civile, sia dal genere o tipologia di beni destinati. In linea con le più attuali realtà sociali, chiunque – coppie non sposate con figli, conviventi di fatto e single – può “accedere” al trust, eseguendo atti di dotazioni aventi ad oggetto qualsiasi entità suscettibile di valutazione economica e stabilendo anche la durata della destinazione con una scelta volta alla massima discrezionalità. A differenza del fondo patrimoniale – la cui durata è legata ex lege alla cessazione, fisiologica o patologica, del rapporto coniugale (o di unione civile), ferme le ipotesi di ultrattività ex art.171, 1°e 2°co., c.c. – il trust non conosce particolari restrizioni temporali, se non quelle imposte dalla legge straniera richiamata come legge regolatrice; esso “cessa”, di regola al termine stabilito dal disponente nel relativo atto istitutivo: ben può, dunque, quest’ultimo prevedere una durata svincolata dalle vicende di cui all’art. 171 c.c., garantendo in tal modo ai familiari una tutela costante nel corso del tempo.
Perno del trust è un programma fissato dal disponente diretto ad assicurare che la destinazione, rispetto alle finalità previste dall’atto istitutivo, sia effettiva e si compia proficuamente. La realizzazione del programma implica l’affidamento ad un soggetto imparziale, il trustee, al quale sono trasferiti i beni, e che assume a suo carico precise “obbligazioni fiduciarie” nei confronti dei beneficiari. L’agire del trustee, in buona sostanza, è vincolato allo svolgimento di una attività gestoria, funzionale all’attuazione della destinazione programmata, attorno alle quali gravitano gli interessi dei beneficiari, i quali hanno, quindi, il diritto di attendersi che il trustee adempia puntualmente ed esattamente le disposizioni contenute nell’atto istitutivo.
Al contrario, il fondo patrimoniale è sprovvisto di un qualsiasi programma gestorio: i coniugi (o le parti unite civilmente), ai quali spetta la proprietà dei beni conferiti (art.168 c.c.), svolgono una attività di amministrazione, la cui disciplina rinvia sic et simpliciter al regime della comunione legale (senza che, peraltro, nulla sia previsto in termini di reimpiego o di surrogazione). Manca, dunque, una forma di garanzia a fronte di eventuali conflitti o semplice disaccordo tra i gestori; inoltre, elevata è la materializzazione del rischio di scelte gestorie discrezionali e poco aderenti al soddisfacimento della destinazione impressa, con conseguente pregiudizio dei componenti della famiglia, figli in primis, privi di tutela in caso di mala gestio dei beni conferiti nel fondo. Sotto questo profilo è la stessa affermata funzione protettiva del fondo patrimoniale che viene a “scolorarsi”, perdendo di concretezza ed oggettivo significato.
La gestione dei beni in trust è, invece, immune da eventuali dissidi tra i componenti della famiglia, in quanto affidata unitariamente al trustee, il quale è assoggettato a stringenti obblighi di condotta previsti dalla legge regolatrice del trust e dall’atto istitutivo: lealtà, obbligo di rendiconto, d’imparzialità, di custodia, d’informazione e di diligenza, solo per citarne alcuni. Ogni inosservanza chiamerà in causa, pertanto, la sua responsabilità. Senza contare che al trustee può sempre essere affiancata la figura di un guardiano, con il compito di supervisionare l’operato del primo.
Last but not least, al programma predisposto dal disponente nell’atto istitutivo di trust fa da contrappunto una segregazione patrimoniale – correlata, funzionalmente, ad un meccanismo di surrogazione reale – stabile e definitiva del complesso delle situazioni giuridiche che confluiscono nel fondo in trust: i beni in trust costituiscono una massa distinta, non fanno parte del patrimonio personale del trustee, e, di conseguenza, sono estranei sia alla successione ereditaria sia al regime matrimoniale del trustee. Risvolto pratico è che detti beni rimangono sottratti e inattaccabili dai creditori del trustee e non sono aggredibili neppure dai creditori del disponente. Essi sono attingibili dai soli “creditori del trust”, ovvero coloro nei cui confronti il trustee abbia assunto obbligazioni nell’intento di gestire i beni medesimi secondo lo scopo del trust (art. 2, comma 1°, lett. a), e art. 11, 2°co. Conv.).
È evidente che, rispetto all’opponibilità generalizzata del trust nei confronti delle pretese esecutive dei creditori personali del disponente e del trustee, la portata segregativa del fondo patrimoniale, così come modellata dal dettato normativo, è modesta. A ciò si aggiunga che, nel corso degli anni, si è consolidato, in giurisprudenza (ex multis Cass., Sez. 3, sent. n. 134 del 07/01/1984; Sez. 5, sent. n. 15862 del 07/07/2009; Sez. 3, sent. n. 4011 del 19/02/2013; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 3738 del 24/02/2015, Rv. 634646 – 01; Sez. 3, sent. n. 21800 del 28/10/2016, Rv. 642962 – 01; Sez. 3, ord. n. 2904 del 08/02/2021; Sez. 1, ord. n. 29983 del 25/10/2021; Sez. 3, ord. 9789 del 11-04-2024, n.9789), l’orientamento secondo il quale nel concetto di “bisogni della famiglia” vanno ricomprese tutte le esigenze volte “al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia ovvero al potenziamento della capacità lavorativa di uno dei coniugi” escludendo solamente le esigenze di natura “voluttuaria” o da “interessi meramente speculativi”. Tale interpretazione estensiva va chiaramente ad ampliare le ipotesi di debiti che possono essere contratti per soddisfare i bisogni familiari – rispetto i quali è ammessa l’esecuzione – e, per l’effetto, la stessa nozione di “creditore familiare”. Ora, se dal fondo si può attingere per qualsiasi esigenza e se su di esso può rivalersi in definitiva chiunque, è evidente che il fondo patrimoniale costituisce uno strumento giuridico di segregazione patrimoniale depotenziato e, in ogni caso, “debole”.
A seguito di questa breve disamina, cosa rimane, dunque, del fondo patrimoniale rapportato al trust? Poco o nulla rispetto alle possibilità di protezione patrimoniale offerte dall’istituto di common law.
Salvatore Tramontano