La sentenza n. 129/2024 della Corte Costituzionale: il licenziamento disciplinare e la reintegra
La Corte Costituzionale è intervenuta con sentenza n. 129/2024 in materia di sanzione prevista dal d.lgs. n. 23 del 2015 per il licenziamento disciplinare. In questo caso la Corte ha adottato però la tecnica della sentenza interpretativa di rigetto ed ha affermato che l’art. 3, comma 2 – che prevede la reintegra solo in caso di «mancanza del fatto materiale con esclusione di qualsiasi rilevanza del giudizio di proporzionalità» – può essere ritenuto costituzionalmente legittimo solo se interpretato nel senso che includa anche l’ipotesi in cui la fattispecie disciplinare contestata sia tipizzata dalla contrattazione collettiva come punibile con sanzione conservativa
Ai fini dell’interpretazione di rigetto – che, va precisato, espunge comunque dalla lettura della norma una parte del suo apparente significato – è stato determinante il potenziale contrasto della disposizione di legge, prospettato dal tribunale di Catania, con l’art. 39 Cost.: ma sempre che l’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015 prevedesse veramente che la reintegrazione fosse da escludere anche in caso di licenziamento intimato per un fatto cui la contrattazione collettiva riserva una sanzione conservativa, come era avvenuta nel caso di specie. Ove la legge escludesse la reintegra per una fattispecie disciplinare punita dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa secondo la Corte Cost. «comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva, il cui ruolo essenziale nella disciplina del rapporto di lavoro, privato e pubblico, è stato più volte riconosciuto dalla Corte (sentenze n. 53 del 2023, n. 153 del 2021, n. 257 del 2016 e n. 178 del 2015)» e sarebbe pertanto illegittima costituzionalmente.
La mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti.
Ma per la Corte cost. questo non è l’inevitabile approdo a cui deve condurre l’interpretazione della normativa in oggetto. Al contrario di quanto ipotizzato dal giudice a quo la Corte ha invece osservato come nella norma di legge manchi qualsiasi riferimento alla contrattazione collettiva: l’art.3, comma 2, denunciato come costituzionalmente illegittimo non menziona infatti l’ipotesi in cui la contrattazione collettiva contempla una sanzione conservativa; e perciò non prevede espressamente che la reintegra debba essere negata anche nell’ipotesi suddetta. Ed ha affermato quindi che sia possibile una interpretazione diversa da quella prospettata, sulla scorta del collaudato principio secondo cui, «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (sentenza n. 42 del 2017), potendo questa Corte indicarne l’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità a Costituzione, sì da superare un dubbio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 41 e n. 36 del 2024, n. 183, n. 105, n. 46 e n. 10 del 2023)».
Pertanto, secondo la Corte cost., è possibile ed anzi doverosa «un’interpretazione adeguatrice» della disposizione in parola che consente di escludere l’illegittimità costituzionale denunciata dal giudice a quo. Ed essa impone di «equiparare» l’ipotesi del fatto materiale insussistente a quella in cui il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa, posto che «in tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento. Non vi è un ‟fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata».
Pertanto quante volte la contrattazione collettiva preveda per quel comportamento una mera sanzione conservativa (ad es. un rimprovero, la multa, la sospensione) il giudice che dichiari l’illegittimità del licenziamento dovrà accordare la reintegra.
In tal modo l’abuso manifesto e consapevole nell’impiego dello strumento disciplinare non può dunque portare più allo scopo di estinguere il licenziamento; quello che veniva detto una volta il torto marcio per l’esplicita previsione di sanzione conservativa – magari richiamata nella procedura di contestazione – porta dunque ancora alla reintegra al contrario di quanto sembra affermato dal legislatore del jobs act posto che secondo la lettera della norma (art.3) del decreto legislativo, la mancanza di proporzionalità del licenziamento precluderebbe al giudice di accordare la tutela reintegratoria («resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento»).
Si può evidenziare che alla luce dell’art.39 Cost. la decisione della Corte si regge su un duplice ordine di considerazioni perché essa sostiene, sia che occorra «equiparare l’ipotesi del fatto materiale insussistente a quella in cui il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa» e, nel contempo, che occorra dare rilievo alla mancanza di «proporzionalità convenzionale».
Si tratta perciò, in sintesi, di una sentenza interpretativa di rigetto, adeguatrice ed inclusiva. Di rigetto, perché la Corte ha dichiarato la non fondatezza della questione in quanto dalla disposizione impugnata si deduce un’interpretazione normativa diversa da quella desunta dal giudice a quo, e comunque un’interpretazione che la Corte ha ritenuto conforme alla Costituzione; adeguatrice, perché non esistendo un diritto vivente da richiamare allo scopo la stessa Corte cost. ha elaborato direttamente (e per la prima volta a quanto risulta) una interpretazione della norma tale da renderla compatibile con i principi costituzionali richiamati dal giudice a quo e ritenuti diversamente fondati; inclusiva perché riconduce nell’articolo 3, comma 2 anche il riferimento alla contrattazione collettiva che la norma non prevede in alcun modo (come afferma testualmente la stessa pronuncia).
Mariaines Marangelli