Alla luce della disciplina di settore succedutasi nel tempo (la c.d. legge Balduzzi e, poi, la c.d. legge Gelli-Bianco), l’apprezzamento del rispetto delle linee guida e delle buone pratiche – sempre che il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali – unitamente alla natura della colpa (generica o specifica; per imperizia, negligenza o imprudenza), costituiscono l’ambito di studio per stabilire la responsabilità del medico in ambito penale.
La Suprema Corte sentenza n. 18347 del 29 aprile – 12 maggio 2021, fa il punto sugli elementi da tenere in considerazione nel vagliare il grado della colpa dell’esercente una professione sanitaria, fornendo parametri specifici per la relativa valutazione.
In particolare, in relazione alla divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, è stato osservato che, nel determinare l’entità della censura, possono venire in rilievo sia le specifiche condizioni del soggetto agente e il relativo grado di specializzazione, sia la situazione ambientale in cui il professionista si è trovato a operare.
Quanto alla sussistenza del nesso causale nei giudizi di responsabilità medica, il paziente non può limitarsi ad affermare in giudizio di aver subito un danno alla salute a causa della negligenza del medico, ma sarà necessario che lo stesso dia dimostrazione che, a causa della condotta del medico, si è verificata l’insorgenza di nuove patologie o l’aggravamento della situazione patologica in atto.
Nella ricostruzione del nesso causale, sul piano probatorio, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è che nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. n. 30328 del 11 settembre 2002, Franzese), mentre nel secondo vige la regola “del più probabile che non”.
Sulla scorta di detti principi, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24895 del 30 giugno 2021, è tornata a occuparsi di colpa medica d’equipe e di nesso di causalità. Afferma la Corte che “il medico che venga chiamato per un consulto specialistico ha gli stessi doveri professionali del sanitario che ha in carico il paziente” (tra le tante, Cassazione penale, Sez. IV, sentenza n. 24068 del 15 febbraio 2018), nonché ribadisce il principio stabilito con la sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002 sopra citata (sentenza Franzese) che ha escluso qualsiasi interpretazione fondata, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente “su dati statistici ovvero su criteri probabilistici”.
Principio che la Suprema Corte ha richiamato nella sentenza in commento, accogliendo il ricorso proposto contro la sentenza con cui la Corte di Appello di Milano aveva condannato il medico di guardia di un pronto soccorso per il reato di lesione aggravata in cooperazione colposa (articoli 113, 590, 583 comma 1 n. 2 c.p.) perché ritenuto responsabile del deficit uditivo riportato da una paziente colpita da meningite pneumococcica.
Il caso concreto affrontato dai Giudici riguarda una paziente di un pronto soccorso di un ospedale di Milano, che accedeva alla struttura manifestando un grave quadro sintomatologico (febbre persistente, stato confusionale, cefalea). Visitata dal medico di guardia, sulla cartella veniva classificata come “paziente in stato di agitazione, non collaborante, piretica” e quindi sottoposta a terapia farmacologica, radiografia al torace e TAC cranio. Concluso il turno di servizio, il medico di pronto soccorso affidava la paziente al sanitario subentrante suggerendo di contattare il neurologo reperibile, avendo ipotizzato una sospetta meningite. Lo specialista confermava il sospetto di meningite e disponeva l’invio della paziente in altro ospedale dotato di reparto di malattie infettive; informato delle difficoltà di ricovero della paziente per la mancanza di posti letto, suggeriva al medico del pronto soccorso di eseguire emocolture e successiva terapia antibiotica. Dette prescrizioni non venivano attuate poiché, nelle more (un lasso di circa tre ore), essendosi liberato un posto letto in un nosocomio specializzato, il medico del pronto soccorso aveva disposto il trasferimento della paziente presso tale struttura. Giunta presso quest’ultima struttura, alla paziente veniva diagnosticata una meningite pneumococcica con esiti permanenti di ipoacusia.
La Corte di Appello di Milano aveva ravvisato la penale responsabilità del medico di guardia al pronto soccorso (il secondo intervenuto) per non avere immediatamente iniziato la terapia antibiotica, così come prescritto dalle linee guida, nonché la responsabilità ai fini civili del neurologo per non aver subito predisposto la terapia antibiotica e per non aver controllato che il collega del pronto soccorso l’adottasse.
Il Supremo Collegio, nel riformare la pronuncia della Corte di Appello, pur giudicando “colpose” le condotte dei sanitari imputati, ha giudicato carente di motivazione l’assunto che il deficit uditivo, quale conseguenza della meningite, fosse dipeso dalla condotta colposa, dal momento che la Corte territoriale meneghina anziché attenersi al principio di diritto stabilito dalla sentenza Franzese si era basata su dati statistici desunti da “studi retrospettivi” e su affermazioni apodittiche quali “un trattamento tempestivo avrebbe innescato un decorso causale diverso e portato alla verificazione di un evento-malattia più lieve rispetto a quello concretamente verificatosi, con minori sofferenze per la paziente” senza accertare il nesso eziologico tra le condotte colpose e l’evento.
La Cassazione ha evidenziato l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale; sussiste, quindi, un ragionevole dubbio, in base alle evidenze disponibili, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento, tali da comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.
Nulla quaestio, invece, sulla non invocabilità dell’affidamento in ipotesi di cooperazione multidisciplinare in tema di colpa professionale medica; qualora, infatti, ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune e unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità.
Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.
A seguito dell’annullamento con rinvio della sentenza operata dalla Cassazione, il Giudice del rinvio dovrà rivalutare il tema del nesso eziologico tra le condotte colpose loro imputate e l’evento loro imputato, riportandolo a quello di cui all’imputazione, ovvero alla ipoacusia che avrebbe cagionato l’indebolimento permanente dell’udito della paziente.
E naturalmente, il nuovo Giudice non potrà eludere il tema del perché ritiene che l’ipoacusia sia da mettere in relazione al ritardo terapeutico del primo ospedale e non a quello del secondo, dove pure la somministrazione dell’antibiotico è cominciata alcune ore dopo l’arrivo.
Corinne Ciriello