Con la sentenza n. 22247/21 la Suprema Corte è intervenuta nuovamente sulla autonomia delle clausole del patto di non concorrenza e del divieto di storno di clienti, andando a dirimere una controversia tra un noto Istituto di credito e un suo ex dirigente.
Gli Ermellini hanno confermato il decisum della Corte d’Appello di Milano, che, in accoglimento delle domande avanzate dal datore di lavoro, aveva condannato l’ex dirigente dimissionario al pagamento in favore della Banca delle penali contrattualmente pattuite per la violazione tanto del patto di non concorrenza, quanto del divieto di storno di clientela.
I giudici di legittimità, infatti, dopo aver argomentato sulla validità in concreto di entrambe le clausole contrattuali, hanno ribadito l’orientamento, ormai costante, in forza del quale l’autonoma clausola del divieto di storno non è riconducibile al patto di non concorrenza contrattuale, in quanto diretta a disciplinare una obbligazione diversa e quindi non sussumibile nella fattispecie astratta di cui all’art. 2125 c.c.
In altre parole, la Cassazione ha confermato i principi statuiti nella sentenza di merito fugando ogni dubbio sulla indipendenza delle due clausole, rinvenendo la loro autonomia nella diversa fonte normativa regolatrice le singole fattispecie (l’art. 2125 c.c. nel primo caso e il 2958 n. 3 c.c. nel secondo) e verificando che, nel caso sottoposto al suo giudizio, la loro singola violazione era intervenuta mediante condotte distinte, per tempi e modi, sebbene connesse teleologicamente.
In particolare, i giudici hanno avuto modo di precisare che il regime normativo di cui all’art. 2125 c.c. non può estendersi anche al divieto di storno di clienti perché le due clausole vietano due condotte differenti: la prima proibisce lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con la società datrice, anche al termine del rapporto di lavoro; la seconda, impedendo il compimento di atti funzionali allo sviamento di clientela – nella maggior parte dei casi qualificabili come atti di concorrenza sleale – mira a tutelare l’avviamento della società stipulante ed il proprio portafoglio clienti acquisiti nel corso del tempo.
Nel caso di specie, poi, l’autonomia delle due clausole risultava addirittura rafforzata dall’apposizione del diverso termine di efficacia per l’una e per l’altra. Dunque, la Corte territoriale, una volta accertata la violazione da parte del lavoratore di entrambe le obbligazioni sottese alle due clausole, non poteva che condannare l’ex dirigente al pagamento di entrambe le penali contrattualmente previste, non potendosi profilare alcun illegittimo raddoppiamento tra i due obblighi assunti in contratto.
Mariaines Marangelli